PESCO

Il pesco è la pianta da frutto (estiva) più coltivata nel nostro paese, oltre che, per la fascia temperata, in tutto il Bacino del Mediterraneo senza voler far riferimento ad altre zone geografiche (America, Estremo oriente, Cina in primis). Occorre infatti ricordare che essa è stata anche la prima specie legnosa sulla quale sono state compiute le prime esperienze di impianti intensivi: siamo a Massa Lombarda (RA), alla fine del 1800. Da queste prime, fortunate esperienze, i frutteti specializzati sono diventati il lustro della frutticoltura italiana, poi copiata in tutto il mondo, in particolare a partire dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Intere schiere di frutticoltori e tecnici prima, ricercatori e studiosi poi, hanno nel tempo esteso a tutte le specie da frutto le soluzioni che, in prima istanza, erano state sperimentate e poi applicate sul pesco, anche grazie alla ‘plasticità’ del suo albero, che si presta a diverse modalità di allevamento.

Il pesco (Prunus persica L. Batsch) e’ una specie diploide (2n= 16, dimensione del genoma 265 milioni di basi) appartenente alla famiglia della Rosacee. Il suo inquadramento sistematico nel genere Prunus, sottogenere Amygdalus, è avvenuto solo in tempi relativamente recentemente (Bailey, 1927). Gli ultimi studi a livello genomico collocano la sua origine circa 2.5 M anni fa nei rifugi glaciali generati dal sollevamento del plateau Tibetano, nel sud-ovest della Cina (Yu et al., 2018). Questa ipotesi e’ corroborata anche dal ritrovamento di residui fossili (endocarpo) nella regione del Kunming datati in quel periodo (Su et al., 2015). Il progenitore del pesco non è tuttora noto (forse estinto) e probabilmente condiviso con altre specie affini tra cui il mandorlo (P. dulcis), che è la specie più prossima. La drupa del progenitore era probabilmente non edibile e simile al mandorlo (ovvero con mesocarpo secco e fibroso, e mallo che si apre lungo la linea di sutura a maturazione). Il frutto polposo ed edibile si è evoluto solo successivamente in pesco, P. ferganensis, P. mira e P. kansuensis, ma non in altre, come P. davidiana, P. mongolica e P. tangutica. Queste specie affini hanno in comune una scarsa qualità del frutto ed un prevalente impiego come portainnesti, pur rappresentando una fonte di caratteri di resilienza a stress biotici ed abiotici.

P. mira è una specie spontanea del Tibet orientale, molto longeva (fino a 1000 anni); i frutti, edibili, sono molto variabili nella forma, dimensione e colore; il nocciolo è liscio sebbene, in alcuni tipi, assuma le caratteristiche di quello di P. persica.

P. kansuensis è una specie spontanea del nord-ovest della Cina, dal frutto astringente e con nocciolo a scanalature parallele senza fori.

P. davidiana è una pianta spontanea molto rustica, con frutto a polpa spicca e nocciolo caratterizzato da numerosi piccoli fori; di particolare interesse sono risultati alcuni caratteri, fra cui la resistenza al virus della sharka (Plum Pox Virus), ad alcuni nematodi (Meloidogyne incognita) e ad altre patologie, oppure l’adattabilità a diverse condizioni pedologiche e alla ‘stanchezza’ del suolo (Foulongne et al., 2003).

P. ferganensis è stata recentemente ri-classificata come sottospecie pesco; i frutti sono caratterizzati da un’elevata variabilità, i noccioli sono caratterizzati da scanalature parallele e i semi possono essere privi del glucoside cianogenetico che conferisce il tipico sapore amarognolo.

Nonostante le sue origini risalgano molto probabilmente dagli altopiani del Tibet, per secoli il pesco fu erroneamente ritenuto di provenienza persiana. Ne sono recente testimonianza i ritrovamenti archeologici di noccioli risalenti al Neolitico (6000 ac) nei villaggi Hemudu sulle rive dello Yangtze (Zheng et al., 2014). La ‘domesticazione’ del pesco si colloca intorno al 3000 ac, mentre il suo arrivo in Europa potrebbe essere avvenuto attraverso diverse vie: forse dalla Persia, notato da Alessandro Magno nei giardini del re Dario III; oppure dall’Egitto, secondo Diodoro Siculo. L’ipotesi più accreditata è però quella del mondo greco, attraverso appunto la Via della Seta, fino a diffondersi nell’impero Romano, come riportano Plinio il Vecchio (79 DC) e altri autori latini (Faust & Timon, 1995). Dopo la caduta dell’Impero, il pesco sembra scomparire dalle campagne, e parrebbe sia stato salvato da Carlo Magno, che ne promosse la diffusione nei giardini dei monasteri; ricompare poi in epoca rinascimentale negli horti nobiliari. Viene quindi esportato nel Nuovo Mondo dai colonizzatori ispanici. L’epoca d’oro (in tempi moderni) inizia a metà del ‘800, con l’arrivo nel piccolo stato americano del Delaware di ‘Chinese Cling’, una pesca cinese a polpa bianca con buccia marezzata di rosso (Hedrick, 1917). Nel primo ‘900, le varietà americane discendenti da ‘Chinese Cling’ e delle antiche pesche ispaniche (le ’Indian peaches’) iniziano a diffondersi prima in America del nord e poi, ad inizio del secolo scorso, in Europa, dove nel frattempo si coltivavano sporadicamente solo varietà locali (discendenti del primo materiale genetico arrivato nel bacino del Mediterraneo). Ritorna infine nella sua terra d’origine, la Cina. Curioso il caso delle nettarine, originarie del bacino del Tarim, ma sviluppate dal breeding moderno in California nella seconda metà del secolo scorso (e successivamente in Euuropa), e poi utilizzate anche nel breeding cinese, grazie alle varietà USA. In Cina, la coltivazione del pesco è stata realizzata, fin a tempi recenti, quasi esclusivamente da piccoli frutticoltori, facendo ricorso ad accessioni locali, nella stragrande maggioranza pesche comuni a polpa bianca e sapore sub-acido.

Il pesco è la drupacea maggiormente coltivata, con una produzione mondiale stimata in oltre 25 milioni di tonnellate (FAOSTAT, 2018). La Cina e’ di gran lunga il primo paese per volumi produttivi (quasi 15 Mt), seguita da Italia e Spagna (entrambe intorno a 1,5 Mt). La maggior parte delle produzioni e’ destinata al consumo fresco, non trascurando tuttavia la trasformazione industriale in succhi, marmellate e sciroppati. La peschicoltura dispone di un assortimento varietale straordinariamente ampio ed in continua evoluzione. La classificazione delle tipologie presenti sul mercato si basa principalmente su peculiari caratteristiche del frutto, principalmente la tomentosità dell’epidermide, che distingue le pesche dalle nettarine; l’epidermide glabra è un carattere monogenico recessivo controllato da una mutazione nel gene MYB PpeMYB25, che regola la formazione di tricomi determinando il fenotipo ‘nettarina’ (Vendramin et al., 2012). Il colore della polpa è un altro tipico criterio di classificazione: la colorazione gialla si è originata da almeno 3 distinti eventi di mutazione a carico di un gene ancestrale (responsabile del colore bianco) nella via di sintesi dei carotenoidi (PpCCD4) (Falchi et al., 2013); è inoltre presente un carattere ‘polpa sanguigna’, sebbene non abbia ancora alcun rilievo commerciale. La colorazione rossa della polpa è dovuta all’ attivazione di un gene NAC (chiamato ‘Blood’, BL) che induce la sintesi di cianidine (antociani) (Zhou et al., 2015). Tale carattere si esprime in concomitanza al colore di base (bianco o giallo). Sebbene la maggior parte delle pesche abbia una forma globosa o allungata, è presente anche una forma appiattita (volgarmente detta ‘platicarpa’) inizialmente diffusa solo a livello locale (come le cosiddette ‘tabacchiere’ prodotte in alcune zone della Sicilia). Il carattere è dominante (ma letale allo stadio omozigote), dipende probabilmente da una mutazione del gene LRR-RLK, coinvolto nel metabolismo dei brassinosteroidi, ormoni che regolano la divisione cellulare (López-Girona et al., 2017).

La tessitura della polpa è un altro carattere fondamentale dal punto di vista tecnologico e commerciale, essendo presenti nel pesco almeno tre differenti tipologie: fondente (‘Melting’, M), non-fondenti (‘Non-Melting’, NM) e Stony-Hard (SH). Le varieta’ NM, dette anche percoche, che conservano una polpa consistente anche a piena maturità, e sono destinate prevalentemente alla sciroppatura. Il carattere è regolato da una variazione nel numero di copie di una endo-poligalatturonasi (endoPG), enzima coinvolto nella degradazione della parete cellulare: una copia (PpendoPGM, H1), due copie (PpendoPGF e PpendoPGM, H2) e nessuna (H3). Le varieta’ con le combinazioni H1H1, H1H2, o H1H3 hanno una polpa fondente e non aderente all’endocarpo (detta anche ‘spicca’) o semi-aderente; quelle con H2H2 e H2H3 sono fondenti ma con polpa aderente (‘duracine’) mentre le H3H3 sono NM con polpa aderente (Gu et al. 2016).

Il tipo SH è invece caratterizzato da una tessitura croccante, dovuta ad una bassissima produzione di etilene nel frutto, a sua volta causata da una ridotta attivita’ del gene auxinico PpYUC11-like (Pan et al. 2015). Questo carattere monogenico recessivo è controllato dal locus hd ,differente rispetto al M/NM, e risulta i difficile da distinguere dalla tipologia NM, di cui maschera l’espressione (epistasi): solo il trattamento con etilene dei frutti SH consente di rivelare la presenza del fenotipo NM. Nonostante le potenzialita’ commerciali, le SH non rivestono al momento una particolare importanza commerciale.

I frutti destinati al consumo fresco sono in genere fondenti, presentandosi a maturazione fisiologica molli e succosi; tuttavia esiste una variabilità molto ampia, di natura quantitativa, riguardo alla velocità e/o all’entità con cui avviene l’intenerimento. In genere, le varieta’ commerciali tendono ad avere una polpa da soda a molto soda. Una variante di rilievo (a ereditarietà mendeliana, probabilmente dominante) e’ stata identificata nella nettarina ‘Big Top’ e definita ‘a lento intenerimento’ (slow softening), sebbene i meccanismi fisiologici che lo determinano siano ancora sconosciuti (Ghiani et al., 2011).

Una notevole variabilita’ è inoltre presente sotto il profilo gustativo, dovuta alle componente aromatica e fenolica, al contenuto in zuccheri solubili (fruttosio, glucosio, sorbitolo e, principalmente, saccarosio) ed acidi organici (malico, citrico, quinico, nell’ordine, quantitativamente i piu’ importanti). Il grado zuccherino, espresso in genere in termini rifrattometrici, oscilla tra il 10 – 15% nelle cultivar in commercio, ma può superare anche il 20 – 25% in certe accessioni. Il contenuto di zuccheri dipende da una complessa interazione tra fattori genetici, ambientali e colturali, ancora scarsamente nota e solo parzialmente sfruttata nel breeding (Cirilli et al., 2016). Il sapore è fortemente influenzato, oltre che dal contenuto assoluto, anche dal rapporto tra zuccheri ed acidi: i frutti tendono ad essere percepiti con maggiore dolcezza all’aumentare di tale rapporto. Il carattere ‘sub-acido’, monogenico dominante, determina una forte riduzione dell’acidità totale (che assume valori minori di 5,5 g/l) ma non modifica il contenuto zuccherino, mentre causa l’aumento del rapporto zuccheri/acidi. Tale carattere conferisce alle pesche sub-acide una maggiore dolcezza di quelle ad acidità normale (a parita’ di zuccheri). Tuttavia, un contenuto di acidi troppo basso (unitamente ad una concentrazione di zuccheri sotto al 12%) tende a ridurre la percezione del tipico aroma di ‘pesca’, determinando anche un certo ‘appiattimento’ delle caratteristiche organolettiche del frutto.

Molte delle tipologie di pesca che oggi conosciamo hanno un origine antica. Intorno all’anno 1000, Zhou ShiHou (1081 DC) annotava nel suo libro (Luo Yang Hua Mu Ji) oltre 30 tipologie di pesche, incluse le pesche piatte (Peen-to) sub-acide, descritte anche come ‘gusto miele’ (a causa del sapore molto dolce, ma spesso insipido se l’acidità è troppo bassa) o le nettarine. La variabilità del pesco era nota anche in epoca Romana, e riportata da autori latini come Virgilio, Columella, Palladio, che descrissero alcune sue tipologie, come la Duracinus, riferito alla polpa non spiccagnola; questo termine è ancora impiegato oggi per definire la tessitura non fondente (di fatto quest’ultimo carattere si associa alla polpa aderente). Le prime esperienze di valorizzazione varietale del pesco in Italia risalgono al o XVI – XVII secolo in Toscana, testimoniato dalle opere di pomologi e pittori (come il Bimbi, che lavorò alla corte dei Medici) che ritraevano le cultivar introdotte nei pomari delle ville gentilizie fiorentine. E’ tuttavia il ‘900 l’epoca d’oro del breeding del pesco, con la costituzione di migliaia di varietà. Oltre al miglioramento dei caratteri estetici e commerciali del frutto, i principali obiettivi hanno riguardato anche l’allungamento del calendario di maturazione e l’adattamento a diversi ambienti di coltivazioni. Il calendario di maturazione è oggi in grado di coprire oltre 6 mesi, dalla fine di aprile (in coltura protetta) con le extra-precoci, fino ai primi di Novembre con le cultivar tardive. La prima pietra miliare del breeding moderno è stata ‘Elberta’, ottenuta negli USA nel 1889, da cui discendono la maggior parte delle odierne varietà a polpa gialla. Fino alla sua introduzione infatti, la tipologia a polpa bianca dominava il panorama peschicolo. Da Elberta discende, probabilmente, anche ‘J. H. Hale’, la seconda importante introduzione (1912) e caratterizzata da una maggiore qualità del frutto. Questa varietà è stata molto impiegata nei programmi di breeding dei primi del ’900 in Italia, e si ritrova nel pedigree di oltre 200 varietà. La terza grande introduzione USA fu la pesca ‘Redhaven’ (anni ’40), che segnava un sostanziale miglioramento qualitativo delle pesche in termini estetici e commerciali (Giovannini et al., 2014); tale pesca ha rappresentato lo standard commerciale in Europa per quasi trent’anni.

Nel 1907 iniziava in California anche la selezione di cultivar con basso fabbisogno in freddo, che hanno consentito nel tempo di allargare la coltivazione del pesco in fasce climatiche più ampie, dal Canada alle zone sub-tropicali. La prima donatrice del carattere ‘basso fabbisogno in freddo’ è originaria del sud della Cina, importata in USA dall’Australia nel 1869 con il nome di ‘Australian Soucer’ (Topp et al., 2009). Da essa discende la prima varietà rilasciata con questo carattere, ‘Babcock’, coltivata sino agli inizi degli anni ’90 in California. In seguito, sono state impiegate altre fonti per questo carattere, provenienti dalle Hawaii oppure dal Centro e Sud America (Messico e Brasile), consentendo un notevole allargamento del quadro varietale.

Il rilascio di ‘Le Grand’ (1942) ha segnato una pietra miliarenella valorizzazione commerciale della tipologia ‘nettarina’, iniziata nei primi del ‘900 a partire da semenzali di varia origine (come l’accessione pakistana ‘Quetta’ e le neozelandesi ‘Goldmine’ e ‘Lippiatt’) (Vendramin et al., 2012). Una piccola digressione: l’areale di origine del carattere nettarina non è tutt’ora noto, sebbene la diffusa presenza di nettarine nel Turkestan (ispiratrici del celebre saggio ‘The Golden Peach of Samarcanda) suggerisse ad Hedrick (1917) di indicare le oasi del Tarim, nella valle Fergana. In Europa, la nettarina ‘Sbergio’ (dall’arabo al-berchiga) fu introdotta in Sicilia forse a partire dal 965, mentre la sua coltivazione nella valle del Niceto sembrerebbe accertata a partire dal XVI secolo (Venuti, De agricultura opusculum, 1516). Il nome ‘nettarina’ appare intorno al 1660, ispirato dal tedesco nektarpfirsich = pesca-nettare, tradotto in inglese come ‘nectarine’.

Il miglioramento varietale proseguiva negli anni ‘60 e ‘70 con la pesca ‘O’ Henry’, dal sovraccolore rosso esteso alla quasi totalita’ della buccia, e la nettarina ‘Red Gold’. Il rilascio di ‘Big Top’ (1983) rivoluziona l’assetto varietale, portando alla progessiva supremazia sul mercato della tipologia nettarina, a seguito di una combinazioni di caratteri come il sub-acido, la completa e precoce colorazione del frutto e l’elevatissima consistenza della polpa (‘a lento intenerimento’). Gli anni ‘80 vedono anche lo sviluppo di altre tipologie di frutto, come la piatta (a partire dalla ‘migliorata’ ‘Stark Saturn’, 1985), e le pesche sub-acide (prima fra tutte ‘Royal Glory’, 1987). Negli ultimi lustri si rileva un crescente interessa della Cina nel miglioramento varietale del pesco, mirato a colmare rapidamente i problemi della filiera peschicola cinese. Nonostante le cultivars migliorate di origine occidentale siano il punto di partenza dei nuovi programmi, l’enorme (e solo parzialmente esplorata) diversita’ di cui dispongono, potrebbe avere un ruolo fondamentale negli sviluppi futuri della coltura a livello mondiale.

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